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Storia di un'amicizia incredibile

Versione di latino tradotta di Gellio

In Circo Maximo multae saevientes ferae erant, omniumque invisitata aut forma aut ferocia. Sed praeter alia omnia leonum immanitas admirationi fuit, praeterque omnes ceteros unus. Is unus leo corporis impetu et vastitudine terrificoque fremitu et sonoro, toris comisque cervicum fluctuantibus, animos oculosque omnium in sese converterat. Introductus erat inter complures ceteros, ad pugnam bestiarum datus, servus viri consularis; ei servo Androclus nomen fuit. Ubi hunc ille leo vidit procul, repente quasi admirans stetit, ac deinde sensim atque placide, tamquam noscitabundus, ad hominem accedit. Tum caudam more adulantium canum clementer et blande movet, hominisque corpori se adiungitcruraque et manus eius, prope iam exanimati metu, lingua leniter demulcet. Homo Androclus, inter illa tam atrocis ferae blandimenta, amissum animum recuperat, paulatim oculos ad contuendum leonem refert. Tum, quasi mutua recognitione facta, laeti et gratulabundi homo et leo ab omnibus visi sunt ."Cum provinciam” inquit “Africam proconsulari imperio meus dominus obtineret, ego ibi iniquis eius et cotidianis verberibus ad fugam sum coactus et in camporum et arenarum solitudines concessi. Tum, sole medio rabido et flagranti, specum quandam nanctusremotam latebrosamque, in eam me penetro et recondo. Neque multo post ad eandem specum venit hic leo debili uno et cruento pede, gemitus edens et murmura dolorem cruciatumque vulneris commiserantia. Postquam introgressus leo, uti re ipsa apparuit, in habitaculum illud suum, videt me procul delitescentem, mitis et mansues accessit et sublatum pedem ostendere mihi et porrigere quasi opis petendae gratia visus est. Ibi ego stirpem ingentem vestigio pedis eius haerentem revelli conceptamque saniem volnere intimo expressi accuratiusque, sine magna iam formidine, siccavi penitus atque detersi cruorem. Illa tunc mea opera et medella levatus, pede in manibus meis posito, recubuit et quievit, atque ex eo die triennium totum ego et leo in eadem specu eodemque et victu viximus.”


Traduzione



Nel Circo Massimo c’erano molte bestie feroci, e tutte avevano una prestanza o una ferocia mai viste. Ma più di ogni altra cosa fu motivo di ammirazione la smisurata grandezza dei leoni, e più di tutti gli altri leoni uno in particolare. Quel solo leone, per l’irruenza e per la stazza del corpo, per il ruggito terrificante e potente, per i muscoli e per la criniera ondeggiante, aveva attirato su di sé l’attenzione e gli sguardi di tutti. Era stato introdotto tra parecchi altri, destinato al combattimento con le bestie, il servo di un uomo consolare; quel servo si chiamava Androclo. Quel leone, quando vide costui da lontano, all’improvviso rimase fermo, quasi meravigliato, e poi a poco a poco e con calma si avvicinò all’uomo come cercando di riconoscerlo. Poi incomincia a muovere la coda tranquillamente e docilmente, come i cani che fanno le feste, a strofinarsi contro il corpo dell’uomo e a leccare dolcemente con la lingua le gambe e le mani di lui, già quasi mezzo morto dalla paura. L’uomo, Androclo, tra le effusioni di quella belva tanto terribile, recupera il coraggio perduto, a poco a poco volge gli occhi per osservare il leone. Allora, come se si fossero riconosciuti a vicenda, l’uomo ed il leone furono visti da tutti scambiarsi, felici, effusioni d’affetto."Mentre il mio padrone disse governava la provincia d' Africa con la carica di proconsole, io là fui costretto alla fuga dalle sue ingiuste fustigazioni quotidiane, e mi ritirai in campagne e distese di sabbia deserte. Allora, poiché il sole di mezzogiorno era rabbioso e infocato, imbattutomi in una caverna fuori di mano e nascosta, vi penetrai e mi nascosi. E dopo non molto, alla medesima caverna, arrivò questo leone, con una zampa ferita e sanguinante, emettendo gemiti e lamenti che esprimevano il tormento della ferita. Dopo che il leone, entrato in quella che era come risultò chiaro dalla situazione stessa la sua tana, mi vide cercar di nascondermi in fondo, mi si avvicinò mite e mansueto e sembrò mostrarmi e porgermi la zampa sollevata come per chiedere aiuto. Allora io estrassi una enorme scheggia di legno conficcata nella pianta della sua zampa, feci uscire dal fondo della ferita il sangue infetto formatosi e con una certa cura, ormai senza grande timore, la asciugai a fondo e la ripulii del sangue rappreso. Allora il leone, confortato da quella mia opera di medicazione, posta la zampa fra le mie mani, si sdraiò e si addormentò, e da quel giorno io ed il leone vivemmo per tre anni interi nella medesima caverna ed anche del medesimo cibo."

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