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Cicerone: Violento attacco a Verre, governatore disonesto


Versione di Cicerone: Violento attacco a Verre, governatore disonesto, da 'Genius loci', di Marzia Mortarino, Mauro Reali, Gisella Turazza.
 


Venio nunc ad istius, quem ad modum ipse appellat, studium, ut amici eius, morbum et insaniam, ut Siculi, latrocinium; ego quo nomine appellem nescio;
rem vobis proponam, vos eam suo non nominis pondere penditote. Genus ipsum prius cognoscite, iudices; deinde fortasse non magno opere quaeretis quo id nomine appellandum putetis. Nego in Sicilia tota, tam locupleti, tam vetere provincia, tot oppidis, tot familiis tam copiosis, ullum argenteum vas, ullum Corinthium aut Deliacum fuisse, ullam gemmam aut margaritam, quicquam ex auro aut ebore factum, signum ullum aeneum, marmoreum, eburneum, nego ullam picturam neque in tabula neque in textili quin conquisierit, inspexerit, quod placitum sit abstulerit. Magnum videor dicere: attendite etiam quem ad modum dicam. Non enim verbi neque criminis augendi causa complector omnia: cum dico nihil istum eius modi rerum in tota provincia reliquisse, Latine me scitote, non accusatorie loqui. Etiam planius: nihil in aedibus cuiusquam, ne in quidem, nihil in locis communibus, ne in fanis quidem, nihil apud Siculum, nihil apud civem Romanum, denique nihil istum, quod ad oculos animumque acciderit, neque privati neque publici neque profani neque sacri tota in Sicilia reliquisse.
 
 

                                                                 TRADUZIONE
 
 
Di costui vengo ora al vezzo, come lo appella egli stesso, alla morbosa mania, come la definiscono i suoi sodali, al ladrocinio, come lo etichettano gli abitanti della Sicilia. Io ignoro con quale nome chiamare ciò. Avanzerò una proposta nei vostri confronti: giudicate la questione in virtù della sua gravità, e non per il nome che le viene attribuito. Uditene in primis la sorta; dopodichè, probabilmente, non tenterete con ogni sforzo di trovare il nome con cui s'ha da appellare. Io nego che nella Sicilia tutta, provincia tanto opulenta, tanto doviziosa, tanto ricca di città e d'abbienti casate, vi sia mai stato alcun vaso d'argento di Corinto o di Delo, alcuna gemma o perla, alcun manufatto plasmato dall'oro o dall'avorio, alcuna statua bronzea, marmorea o eburnea, nego che vi sia mai stato alcun dipinto in quadro o in arazzo di cui egli non sia andato in cerca, che non abbia ispezionato e sottratto ai legittimi proprietari, qualora questo avesse incontrato il suo gradimento. Forse pare che io stia esagerando: ma badate anche a come esporrò i fatti. Difatti, non ricapitolerò ogni cosa nel tentativo di prolungare l'orazione e l'accusa. Quando affermo che costui non ha lasciato alcuna delle rarità di siffatto genere nell'intera provincia, sappiate che mi esprimo in latino, e non con le esagerazioni tipiche d'un accusatore. Sarò ancora più esplicito: sappiate che costui nulla nell'abitazione di un residente, nulla in quella d'un villeggiante occasionale, nulla nei luoghi pubblici, nulla neppure nei templi, nulla presso un Siciliano, nulla presso un Romano, infine nulla di ciò che gli capitasse sotto gli occhi e gli accendesse il desiderio, che fosse pubblico o privato, profano o sacro, lasciò nell'intera Sicilia.



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