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Gellio: Plutarco e il servo

Cum servus quondam gravissimum facinus commisisset, Plutarchus iussit eum tunica exui loroque caedi. Dum verberatur, quaerimonias iactabat fletusque fundebat, postremo verba obiurgatoria adhibuit atque ad dominum conversus: “Scito -inquit philosophum irasci turpe esse: tu enim, me praesente et audiente, de iracundiae malis saepissime disseruisti. Nonne igitur pudet te, qui philosophus dici vis, irae indulgendo, me plurimis plagis multare?”. Tunc Plutarchus placide et leniter: "Num iratus ego tibi videor? Num me ira correptum esse opinaris? Mihi neque oculi, ut vides, truces sunt, neque gestus inconsultos facio, nec quidquam quod mihi paenitendum vel pudendum sit dico. Haec omnia, si ignoras, irae signa esse solent”. Et ad eum qui servum caedebat converso sermone: “Interim inquit  dum ego atque hic de ira disputamus, perage quod tibi imperavi”.




TRADUZIONE


Poiché un suo servo aveva commesso una volta un’azione molto grave, Plutarco ordinò di togliergli la tunica e di sferzarlo. Mentre il servo veniva fustigato, emetteva lamenti e versava lacrime; infine ricorse a parole di rimprovero e, rivolto al padrone, disse: “Sappi che è cosa vergognosa che un filosofo si arrabbi: tu infatti, mentre io ero presente e ascoltavo, spessissimo discutesti sui mali dell’ira. Non ti vergogni dunque tu, che vuoi essere chiamato filosofo, di punirmi con moltissime percosse, cedendo all’ira?”.  Allora Plutarco con calma e tranquillità rispose: “Ti sembro forse arrabbiato io? Pensi forse che io sia stato travolto dall’ira? Non ho, come vedi, gli occhi torvi, né faccio gesti inconsulti, né dico qualcosa di cui debba pentirmi o vergognarmi. Tutte queste cose, se non lo sai, sono solitamente segni di ira”. E, rivolto il discorso a colui che frustava il servo, disse: “Mentre io e costui discutiamo sull’ira, porta a termine quello che ti ho ordinato”.

 


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